Sanremo 2024, le pagelle della prima serata: Ghali 8, Sangiovanni 3, sorpresa Angelina

Sanremo 2024, le pagelle della prima serata: Ghali 8, Sangiovanni 3, sorpresa Angelina

La prima serata del Festival di Sanremo 2024 si è conclusa con le 30 esibizioni da parte degli artisti, voluti da Amadeus sul palco dell’Ariston. Come avviene in occasione di ogni kermesse canora, sono tante le sorprese sia in positivo che in negativo, con artisti che hanno reso al di sopra delle più rosee aspettative e altri che, invece, hanno deluso. Sugli scudi Ghali con il suo brano, tra le delusioni Sangiovanni e Rose Villain, che convididono parte dei difetti nelle loro canzoni.

Le pagelle della prima serata di Sanremo 2024

Di seguito, sulla base delle premesse, vengono presentate le pagelle della prima serata di Sanremo 2024:

Clara – 4: il testo è piuttosto clichettoso e racconta la classica dinamica di storia attesa-tradita, non riuscendo a rispettare le aspettative che la stessa cantante sembrava aver creato. I problemi iniziali con la comprensione sono dettati dalla tensione, ma l’impressione generale è che all’ascolto il brano appaia più una cantilena che non altro, con un ritornello fin troppo ridondante.

Sangiovanni – 3: “finiscimi” sembra essere, più che il titolo della canzone, un’invocazione del pubblico. Canzone davvero scarna e vuota di significato, aggravata dal piccolo dettaglio che Sangiovanni faccia fatica a cantare; se nel contesto indie, con le basi poco elaborate, l’ex talent di Amici aveva comunque regalato un tipo di canzone decente, con le ballad il cantante delude incredibilmente, a tratti facendo anche fatica ad esprimersi in un modo che sia quanto meno comprensibile.

Fiorella – 6: l’ennesima partecipazione al Festival di Sanremo di Fiorella Mannoia sembra quasi una summa tematica della sua carriera, filtrata da una sonorità differente per cui si sente la mano degli autori. Nel fare se stessa la Mannoia certamente non delude, specie in un brano che sa veicolare un messaggio – nell’anno in cui il femminismo ha assunto consapevolezza artistica – diventando anche orecchiabile. Dà l’idea di già sentito, specie nell’intervento del coro.

La Sad – 4: il tema è certamente importante, così come è interessante i modo in cui viene presentato. Al di là della mera idea, Autodistruttivo è una canzone che non ha mordente, che non si allontana mai dai brandelli di uno stile emo-punk e dalla ripetizione scontata dei tre membri, che cantano passandosi il microfono. Il tutto è troppo piatto là dove la provocazione può assumere valore e il look dei tre cantanti non viene assecondato da un modo di esibirsi che ricorda le boy-band.

Irama – 6,5: sul palco dell’Ariston di Sanremo non ha mai deluso per la sua serietà e la sua compostezza, nel momento in cui dà il meglio di sé anche in termini di atteggiamento. La canzone è buona, inizia in trionfo e si conclude con un importante contributo strumentale, a dimostrazione della conoscenza musicale che il cantante continua a portare sul palco dell’Ariston. Estensione vocale notevole, per un ritornello che così viene ben reso: è una comfort zone, ma pur sempre più che dignitosa.

Ghali – 8: il dialogo con l’alieno di Ghali funziona perfettamente. Ne deriva una canzone in cui il rapper completa, quasi ideologicamente, quel percorso di maturazione musicale che l’ha interessato in carriera: è ormai profondamente legato al senso territoriale della canzone, che riporta in salsa pop, mentre appare più distante dalle distorsioni trap proprie dell’immediatezza. Si parla di immigrazione, di guerra, di dialogo con la realtà, in modo assolutamente originale e fresco: non parliamo di una rivoluzione artistica, ma il pop-rap di Ghali è assolutamente riuscito.

Negramaro – 5: per una band che fonda gran parte della propria carriera sulla potenzialità dell’esplosione vocalica di Giuliano Sangiorgi, sono fin troppi gli errori del frontman della band. Per il resto, si fa fatica a dire qualcosa che sia diverso rispetto a qualsiasi altro giudizio mai dato alla formazione, che ritorna sul palco facendo “i Negramaro” e portando in concorso una canzone piuttosto modesta.

Annalisa – 6: è una sonorità completamente nuova nella carriera di Annalisa, che tende anche al senso dell’elettronica ma che segue il filone dei recenti successi commerciali dell’artista; ritornelli di gran presa nella mente dell’ascoltatore, struttura ritmica regolare e testo di facile accesso: è un brano senza infamia e senza lode (anche nel suo testo, parlando di femminismo ma non graffiando troppo) ma che – considerando il fatto che la cantante sia favorita – si fa fatica a vedere prima di tutti gli altri in classifica, in virtù della sua volontà di non ricercare l’estremo.

Mahmood – 5,5: due vittorie su due al Festival di Sanremo recavano, al cantante di Soldi, una certa sicurezza nel portare sul palco dell’Ariston, una sperimentazione differente, che fosse resa tanto dal punto di vista sonoro quanto nella disposizione del testo. Il brano vive di suggestioni, ha un buon ponte e un ancor migliore ritornello, ma è pregno di una serie di immagini e di citazioni che non sembrano divincolarsi del tutto dalla mente del suo artista. Il tutto è condensato da un atteggiamento del cantante che sembra volersi immergere in un’immagine differente dalla sua, ma che non vi si trova assolutamente a suo agio. Tuta gold è allora una canzone certamente interessante, ma imperfetta.

Diodato – 5: la vittoria di Fai rumore in un Sanremo deserto dimostrava una caratteristica che in Ti muovi risulta essere totalmente assente, l’estensione e la qualità vocale di Diodato. Il cantante appare svogliato, fuori dal testo mai in grado di valorizzarlo, per un brano anche piuttosto banale dal punto di vista contenutistico. Nota di demerito è però la situazione paradossale per un brano che simula, metaforicamente e con gli artisti sul palco, il movimento e l’emergere dentro di sé che un sentimento che si tenta di mettere a tacere, mentre sull’Ariston e nella voce di Diodato c’è tanto piattume. Chiudendo gli occhi sembra quasi di ascoltare Ultimo, e non è un complimento.

Loredana Berté – 5,5: l’idea è che ormai la Berté sia diventata quasi un oggetto di culto, così come dimostrato dal 2019, quando fu inventato un premio pur di soddisfare il suo pubblico scontento del quarto posto. La canzone è assolutamente banale, mentre l’esplosione vocale che contraddistingue il rock della cantante è ormai un qualcosa di lontano: non si può dire certamente male di un brano del genere che appare più la celebrazione di una carriera che non altro, ma il risultato è assolutamente povero sia musicalmente che contenutisticamente parlando.

Geolier – 4: ha fatto più rumore e scalpore per la polemica sul napoletano, rispetto a quello che è stato il suo effettivo risultato sul palco dell’Ariston di Sanremo. Geolier prometteva una rivoluzione canora attraverso il napoletano (dimentico del fatto che qualche anno prima Nino D’Angelo aveva fatto la stessa cosa), ma porta soltanto banalità e ridondanza. I p’ me tu p’ te è la classica canzone da riprodurre in auto ad alto volume, ignorandone il seppur scarso significato. Una canzone davvero mediocre, che sarà affidata immediatamente all’oblio.

Alessandra Amoroso – 6: sembra quasi straordinario osservare un’Alessandra Amoroso che non agisca di sole corde vocali, affidando ad urla e stridii la sua esibizione. Fino a qui, intendiamoci, è una canzone normalissima, ma viene resa molto bene dalla sua cantante, che gioca con la sua voce, modula perfettamente le corde vocali e rinuncia a quelle esplosioni tipiche della sua carriera, affidandosi ad un qualcosa di altro. Le citazioni cinematografiche, con la Roma di notte e il Fino a qui tutto bene del ritornello, sono note di gusto interessanti, per una canzone sufficiente nonostante la sua impostazione.

The Kolors – 5: il passaggio dal rock alla disco è effettivamente completato, dopo il successo estivo di Italodisco, e ciò rappresenta innanzitutto un peccato per una band il cui frontman si chiama Stash in omaggio ai Pink Floyd. Per il resto, Un ragazzo una ragazza costituisce una canzone che farebbe fatica anche a perdurare nelle discoteche, essendo scarsa nella sua presa e non riuscendo ad essere notevole né per il suo testo, né per la sua interpretazione. Considerando che, senza l’orchestra, si perde gran parte della struttura sonora del brano, il risultato appare piuttosto scarno.

Angelina – 7: mai come in questo momento Angelina Mango aveva dimostrato di essere figlia artistica di suo padre e, nel suo “pop mediterraneo” portato sull’Ariston di Sanremo, riesce a trovare una buona chiave di volta per far breccia nello spettatore. Il brano non è soltanto freschissimo e musicalmente interessante, ma richiama anche quelle sonorità della tradizione popolare del nostro paese; per il resto, la cantante ha soltanto qualche lieve sbavatura sul palco ma registra di sapersi ben orientare tra i registri, dal parlato al ritornello in cui l’intensità vocale e maggiore. C’è un buon modo di proporre anche musica commerciale, e Angelina sembra aver trovato il suo.

Il Volo – 4: la proposta di Il Volo è, musicalmente e contenutisticamente, imbarazzante, per un gruppo che appare vetusto fin dal momento in cui ha esordito nelle scene musicali, in barba a ciò che il pubblico generalistica sembra aver richiesto tra le sue logiche per anni. Mai allontanatisi davvero dalla banalità della canzonetta d’amore, qui anche in termini di composizione si sfiora il ridicolo con un brano che sembra appartenere all’inferenza del cartone animato.

Big Mama – 4,5: per una motivazione molto vicina rispetto a quella offerta per La Sad, con BigMama si affronta una certa banalizzazione di tematiche pur valide. Il risultato di La rabbia non ti basta appare piuttosto scialbo dal punto di vista del testo, ma lo è ancor più in una resa che si propone soltanto attraverso l’idea della cantilena (più che parte rappata), fino a giungere il ritornello. Non si comprende davvero se, nel momento in cui certi testi vengono proposti, si crede ad un qualcosa di rivoluzionario o si è consci dei limiti di quel che si crea.

Ricchi e Poveri – 6,5: mettersi in gioco e in discussione in questo momento della carriera potrebbe sembrare cosa semplice, per una formazione che non ha più nulla da chiedere al mercato discografico. Eppure, c’è bisogno di una certa consapevolezza nei propri mezzi, unita ad una capacità di autoironia, per l’ormai duo che si cimenta in un brano dance pop in cui si sente ancora l’energia dell’amore che vuole essere colto al volo. Si presentano sul palco con un fiocco rosso gigante, lo sciolgono al ritornello, sono sul pezzo e non deludono in quanto a musicalità del pezzo. Una sorpresa non da poco.

Emma – 5,5: questo Sanremo non ha bisogno di vincerlo e lo dimostra con un atteggiamento quasi sbarazzino, che ormai definisce la sua seconda parte di carriera, in cui regala sicuramente un qualcosa di maggiormente interessante. L’Emma di Apnea gioca con le sonorità e con un beat coinvolgente, ma difetta di quella potenza che l’artista ha sempre mostrato nella sua carriera. Per le potenzialità che il brano poteva avere, manca molto anche in termini di intensità del testo, ma non lo si può definire un risultato del tutto malvagio.

Renga e Nek – 5: metterli insieme sullo stesso palco assume quasi i connotati del riciclo, per due cantanti che ormai hanno dato tutto e non sembrano avere la benché minima voglia di reinventarsi (vedasi Ricchi e Poveri). Il risultato è la solita ballad romantica che appare pretenziosa nel suo testo, incapace di dare qualcosa in più rispetto alla sua parvenza di oblio, con diverse sbavature (ma non è una novità negli ultimi anni) e con un risultato mediocre.

Mr. Rain – 4,5: dopo aver conquistato il terzo posto a Sanremo 2023 grazie a qualche bambino di troppo sul palco Mr. Rain ci riprova sostituendo gli effetti scenici ma mantenendo, dell’esibizione passata, soltanto gli aspetti più negativi; le qualità del cantante (forse anche a causa di qualche problema audio) sembrano essere perse per strada, per un testo che è tutto sommato la solita solfa, per di più cantata male e con una gestione degli aspetti retorici che sfiora l’approfondimento di una scuola elementare.

Bnkr44 – 7,5: dopo che il palco dell’Ariston aveva già conosciuto l’atteggiamento di irriverenza e rottura portato in auge da Lo Stato Sociale, i Bnkr44 esibiscono una certa disillusione sociale e lo fanno con uno stile (anche cromatico e visivo) assolutamente invidiabile. Nell’osservarli ci si aspetta esattamente ciò che viene reso sul palco: una canzone che cela, nella sua allegria, un abbandono e una volontà di sovversione che appartiene a quell’universo di citazioni, Blur e Sex Pistols tra gli altri, di cui si rendono interpreti. La band gestisce bene il palco, palleggia bene il microfono, crea una canzone orecchiabile e riesce nel suo intento.

Gazzelle – 5: è una delle voci più apprezzate dell’indie italiano e non si scompone minimamente neanche sul palco di Sanremo 2024, dove si presenta con un’idole che non tradisce la sua figura. Ciò che viene tradita è la proverbialità della sua musica, spesso in grado di affidarsi anche a delle chiavi di volta – tanto musicali quanto testuali – in grado di rapportarsi al pop; quello di Gazzelle è un brano volutamente criptico, che vive di clausure e per il quale il suo stesso artista non si scompone mai. Certamente un peccato, date le potenzialità.

Dargen D’Amico – 7: dopo aver conquistato il palco dell’Ariston con Come si balla, Dargen D’Amico torna al Festival di Sanremo con una canzone che maschera – dietro la sua musicalità e il suo ritornello memorabile – il tema difficile dell’immigrazione, che non viene trattato per la prima volta ma che, in questo modo, certamente resta nel segno. Guerra, morte, povertà, titoli scandalistici e violenza feroce sono oggetto di un brano che il cantante porta a termine nonostante le difficoltà della base. Dargen si lancia in un messaggio politico post-esibizione che aumenta il valore del suo brano, e chissà che le prossime serate, in cui i problemi tecnici saranno minori, non regalino al D’Amico prestazioni complessivamente migliori, per una canzone che, concepita com’è e con il coro presente sul palco, sembra quasi ricordare le sonorità di Max Gazzè.

Rose Villain – 3: la parabola discendente della cantante ex Machete, una delle voci più interessanti nell’etichetta con Salmo, rappresenta sicuramente un qualcosa di cui è difficile andar fieri. La cantante, che si è formata artisticamente negli Stati Uniti, sembra quasi essere musicalmente apolide, con un Click Boom diviso strutturalmente in due parti, di cui l’una peggiore dell’altra e per di più – prendendo in prestito un termine cinematografico – “montate” male. Le stonature abbondano proporzionalmente alle brutture della canzone.

Santi Francesi – 6: in un Festival della canzone dominato dalle canzoni d’amore, i Santi Francesi sono gli unici a non mascherarlo fin dal titolo. La loro canzone è pura standardizzazione in termini tematici, ma convincono le sonorità della tastiera e tendenti all’heavy, per una canzone in cui l’importanza dell’estensione vocale, che in effetti è il marchio di fabbrica dell’esibizione, si fa sentire. Il risultato è assolutamente positivo.

Fred De Palma – 3,5: quando si lanciava negli extrabeat che hanno fatto scuola nella scena torinese riusciva ad essere più comprensibile. Per il resto, quello di Fred De Palma non è un testo che presenta i connotati della gravità preso singolarmente, ma che se analizzato in un contesto diventa peggio di quel che è: non è certamente un dramma creare musica (o arte) commerciale, ma lo è servirsi di ogni possibile meccanismo facilone unito come in un ideale collage moneygrabber. La musica di Fred De Palma è un prodotto matematico, studiato a tavolino, in cui l’artista e la sua idea non esistono, per cui la sua esibizione non ha un valore diverso da tutto ciò.

Maninni – 5,5: non è una canzone spettacolare, ma ce lo si aspettava da principio. La canzone che Maninni porta sul palco dell’Ariston si inserisce a pieno merito nell’ideologia degli inni alla vita, e ciò potrebbe già apparire come un leggero svantaggio, considerando l’inconsistenza di brani di questo genere; l’artista sa comunque farsi valere sul palco date le interessanti qualità vocali e non sfigura, pur rimanendo nell’anonimato.

Alfa – 5: che sia per effetto di un artista che ormai ha poco da dire o per un emergente che si piega alle logiche del Festival, il risultato appare molto spesso il medesimo, con brani che sembrano fuoriuscire dalla stessa confezione e che non riescono neanche ad essere davvero così orecchiabile come suppongono di essere. Il “wohoo” che Alfa pronuncia in più punti della sua canzone ha il solo effetto di appiattire ancor più quel testo di per sé banali. Le sonorità non sono certamente da meno, con un brano da saloon posticcio che complessivamente non lascia nulla.

Il Tre – 5,5: la canzone di Il Tre, che ha l’onere di chiudere ad orario proibitivo la prima serata del Festival, sottolinea una qualità complessivamente bassa per la manifestazione canora. Il cantante non è certamente scarso e lo ha sempre dimostrato: quando si lancia nel breve extrabeat effettua anche una dichiarazione di intenti di base della propria carriera, ma il pop sanremese ingloba tutto e anche il tanto amato Guido realizza una canzone che fa parte degli innumerevoli more of same, tanto per testo quanto per significato. Non si può dire che sfiguri.

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